martedì 20 marzo 2012

Che cos’è una cicatrice

Tributo alla filosofia del “soggetto diviso” nei dieci anni dalla morte di Carmelo Bene

Negli ultimi giorni mi capita spesso di confrontarmi con amici con i quali condividiamo interessi e passioni, sulla imponente mole di eventi, piccoli e grandi, che Lecce e il Salento stanno mettendo in cantiere per la celebrazione dei dieci anni dalla morte di Carmelo Bene.
L’idea comune, molto spesso, è una sorta di fastidio per la sensazione sgradevole che, anche in questo caso, l’immenso lascito artistico e culturale di C.B. possa essere reso funzionale alla (da noi) tanto detestata iconografia del Salento da cartolina e contribuire a quel mefitico marketing culturale che banalizza il pensiero e lo impacchetta in confezioni tanto luccicanti quanto vacue.
Chi ha incontrato, amato, studiato C.B., sa perfettamente che il suo lavoro e la sua ricerca non hanno mai flirtato col potere istituzionale, finanche quando l’istituzione ha finanziato la cultura. Il suo percorso artistico non era quello di un istrione narcisista, sebbene la sua rappresentazione più immediata fosse proprio quella di un istrione narcisista. Basta leggere i suoi scritti per comprendere come C.B. sarebbe rimasto disgustato dall’essere celebrato come “soggetto”.
C.B., molto lapidariamente, ha costruito tutta la sua formazione su un’idea, sempre coerente, sempre costante: quella della “dissoluzione del soggetto”. Tutti i suoi riferimenti teorici, dalla filosofia alla psicoanalisi, dalla drammaturgia alla letteratura, erano tasselli dai contorni precisi attraverso i quali ha sempre, proditoriamente, fino allo spasimo insistito su tale questione: la “perdita” del soggetto, il suo “essere bucato”, il suo essere diviso, barrato, il suo non essere mai coeso, solido, univoco. E per C.B. questo soggetto non era solo “l’altro”; era, per primo, egli stesso.
Tante volte ha provato a convincere i media che lo ospitavano come freak più che come intellettuale, che egli, per primo, non si prendeva sul serio come “soggetto” della sua stessa storia culturale. Quando, parafrasando Lacan (uno dei suoi riferimenti fondamentali) ripeteva che egli “era parlato”, piuttosto che “parlare”, ha suscitato non di raro sciocchi sorrisi sulle labbra di chi pensa che la cultura debba avere un ruolo rassicurante per la società. C.B. sapeva perfettamente che il pensiero, al contrario, deve essere tutt’altro che rassicurante: deve produrre shock, rivoluzioni, tagli. Aveva assorbito completamente Nietzsche, C.B.!
Aveva digerito l’idea del tramonto di se stessi, dell’oltre che il Novecento aveva reso la nuova cifra di una umanità non più a suo agio. Mi piace immaginare che se qualcuno avesse chiesto a C.B. “Maestro, come le piacerebbe essere celebrato per i dieci anni dalla sua morte?”, egli avrebbe risposto di non renderlo “puttana di Stato”…puttana si, ma non “di Stato”.
Avrebbe preferito lavori di ricerca, piuttosto che cronache biografiche e happening utili solo alle passerelle delle istituzioni e di chi si aggrappa a esse come un paguro cicisbeo. La falsa epica lo faceva rivoltare. Convinto di quest’idea, non voglio quindi unirmi al coro di chi, istituzionalmente, incastona C.B. –malgré soi – all’interno della mirabolante epica del Salento patria di eroi, santi e filosofi, radicalizzando la provinciale e becera estetica di glorificazione territoriale tanto cara agli amanti della Regione Salento.
Né mi sembra utile, qui, ricostruire la storia del suo pensiero e dei suoi riferimenti teorici, che chiunque può rintracciare, se ne avesse interesse, nel suo lavoro e nei suoi scritti. Provo perciò a isolare un paio di idee su quello che C.B. può aver costituito per la nostra cultura tardo-moderna, non come “soggetto” di teatro ma come vettore di un pensiero filosofico.
Troppo semplice ripercorrere la sua formazione post-strutturalista; i suoi vagabondaggi con Artaud, De Saussure, Lacan, Deleuze; la sua straordinaria rilettura della storia della phoné. Le celebrazioni lo avrebbero fatto sorridere perché C.B., fondamentalmente, lavorava a un continuo tentativo di “mettersi K.O. come soggetto”, tanto per usare una sua espressione.
Cos’è, dunque, un artista, un intellettuale, se non è un soggetto? Quale metafora possiamo utilizzare per alludere alla infinita ricchezza di pensiero insita nella sua opera? Mi piace pensare C.B. come il concetto stesso di “cicatrice”. L’esito cicatriziale del Novecento.
Cos’è una cicatrice?
Fondamentalmente è la rappresentazione fisica di chi porta addosso il senso della sua stessa evoluzione. È l’allusione a qualcosa morto, che non c’è più, in seno a ciò che rimane vivo. Ecco, C.B. è stato una cicatrice della sua stessa soggettività, un soggetto cicatrizzato, che parla di se stesso come metonimia della vita sociale del suo tempo, senza per questo “credersi” un soggetto. Diceva Lacan “Un uomo che si crede un re è un pazzo; ma un re che si crede un re è ancora più pazzo!” e C.B. portava il senso di questa battuta nella carne viva del suo lavoro.
Da una parte, dunque, la filosofia del soggetto bucato, scisso; del lacaniano “soggetto barrato”, ossia della convinzione secondo la quale, come diceva Freud, “l’Io non è padrone in casa propria”, della consapevolezza per cui il soggetto moderno vive in un continuo stato di non-padronanza di sé in quanto preda di un fisiologico iato tra la sua parte cosciente e la struttura inconscia del linguaggio e delle pulsioni che Lacan chiamava Grande Altro.
Dall’altra, l’atteggiamento titanico dell’intellettuale che, sebbene preda di questo gap irrisolvibile della soggettività, non rinuncia a dire (anzi a “lasciarsi dire”) la sua condizione di oblio della presenza.
C.B., nel suo teatro dell’irrappresentabile, ha sempre messo in scena questo: l’impossibilità del soggetto a essere “presente a se stesso”. E in tale denuncia sta il senso dell’arte. Non in una rappresentazione eroica dell’artista come soggetto dell’emancipazione o del sollazzo del popolo. Il soggetto come cicatrice del suo tempo, dunque.
È un tema già presente in Heidegger, quando, in Saggi e Discorsi (1954) introduce il termineVerwindung, letteralmente re-missione/oltrepassamento, nozione che, tuttavia, non allude a un “superamento”. Verwindung implica tutte le sfumature di significato che il verbo italianorimettere, sia nel modo attivo, sia nel modo medio-passivo, suggerisce: “rimettersi da qualcuno” (il soggetto come entità trascendentale), “rimettere qualcosa” (un abito mentale), ri-mettersi come “inviarsi nuovamente” (re-mitto), “rimettersi da una malattia” (appunto come “esito cicatriziale”), ma con, in più, l’idea del distorcimento che riprende. La Verwindung, cioè, indica un atteggiamento di distorsione che è allo stesso tempo proseguimento (consapevolezza di una provenienza storica) e tradimento (istanza di rivoluzione).
Il discorso, filosoficamente, pare molto tortuoso e di difficile comprensione, ma è molto più semplice di quanto si pensi. Il soggetto, detto altrimenti, è sempre convalescente da se stesso e dalla struttura culturale che ne rappresenta il contesto. E la sua opera non è “rappresentazione” ma cicatrice di questa convalescenza/Verwindung. In questo senso l’opera di C.B. si iscrive all’interno di una filosofia del “soggetto diviso”. Il soggetto non è compatto ma rapsodico, effetto delle molteplici polifonie del suo inconscio e dell’immaginario collettivo che attraverso di esso parla.
Ecco perché il continuo vezzo di C.B. di sottolineare la sua inattualità, il suo essere classico nel senso di non-contemporaneo. C.B. odiava il concetto di presenza non solo all’interno del soggetto, ma anche all’interno del tempo, del nostro tempo. Esattamente quello che scriveva Nietzsche nell’aforisma 125 de La gaia scienza sulla “morte di Dio”, in cui il filosofo parlava dell’eterno ritorno dell’uguale, che significa, tra l’altro, la fine dell’epoca del superamento, dell’essere pensato sotto il segno del novum.
Vaglielo a spiegare agli artisti “contemporanei”!


mercoledì 21 dicembre 2011

La filosofia e il coraggio

Sta finendo un anno strano. Un anno apparentemente pieno di trasformazioni, di rivolgimenti più o meno eclatanti nelle strutture politiche e sociali. Gli scrittori di fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta immaginavano la prima decade del XXI secolo come il tempo della tecnologia spaziale, dell’incontro con nuovi mondi e nuovi paradigmi dell’umano. Ma il 2010, più che “l’anno del contatto” con universi ultra-terrestri, è stato l’anno del contatto con vecchie questioni irrisolte di un passato antropologico ancora convalescente e poco metabolizzato. E il 2011, con la Primavera Araba, ha ricollocato questo passato in una cornice molto più cruda ma vera: quella del dissidio sanguinoso tra i sistemi politici dittatoriali e il coraggio della rivoluzione.
In questo senso il 2011 può rimanere nell’immaginario collettivo come un anno in qualche modo caratterizzato dalla tecnologia, ma non la tecnologia delle navicelle e delle tute al carbonio di Blade Runner, né della comunicazione con mondi alieni, così come prefigurato dai romanzi sci-fi.
La tecnologia che ha caratterizzato le trasformazioni di questo tempo è “semplicemente” quella della Rete, che ha permesso anche in contesti poco avvezzi all’edonismo digitale dell’Occidente di raccogliersi attorno a un’idea di riappropriazione della libertà di darsi un futuro, ammesso che quest’auspicio, nei prossimi anni, passi dalle intenzioni alla realtà.
In Italia è sembrato, solo poche settimane fa, di assistere a una nuova liberazione. Sbarazzarsi del nostrano Ubu Re all’amatriciana per risvegliarsi in un apparente grado zero di una non meglio precisata terza repubblica (salvo ritrovarsi nelle pieghe neghittose di un Governo tecnico che ha barattato la politica da lap dance precedente con l’algido ritorno a un sistema old style, che tuttavia continua a promettere – in piena continuità col precedente – lacrime e sangue solo agli strati deboli della popolazione).

Ernesto De Martino definiva questi periodi “apocalissi culturali”, ovvero fasi della storia caratterizzate da una specie di sospensione tra il “non-più” e il “non-ancora”. Ma, come spesso accade nelle epoche più delicate (come i periodi bellici), il gran caos delle apocalissi culturali costituisce il terreno fertile per l’affermazione degli interessi dei più potenti, dei più ricchi, di coloro che detengono una qualche discrezionalità sui sistemi socio-economici di riferimento.

La filosofia, la letteratura, l’arte, in questo senso, hanno da sempre costituito l’antidoto alla colonizzazione dei poteri forti, che sguazzano nella crisi come porci nel fango.
Il problema è capire quali, di volta in volta, siano le parole chiave attorno alle quali ricominciare a costruire un racconto e un vettore di cambiamento. Come possiamo interpretare questo periodo storico, al di là dei più appariscenti cambiamenti sociali, economici, antropologici? È davvero così netta questa presunta liberazione? Siamo proprio così convinti che liberandosi dai dittatori il Nord-Africa si sia liberato dalla dittatura come forma di controllo? Siamo proprio convinti che liberandoci da Berlusconi ci siamo liberati dal berlusconismo?

Non mi piace l’idea di lanciare una riflessione per il nuovo anno con l’amarezza di uno scenario pessimistico ma probabilmente quello che davvero può far cambiare la posta in gioco è proprio smantellare ciò che del berlusconismo ha costituito l’essenza, ossia il delegare la responsabilità del pensare, il distogliere lo sguardo critico e rintanarsi nell’individualismo delle storie personali, sempre più distratti dalle paillettes e dai cotillons che da Drive In agli Amici di Maria De Filippi hanno portato lentamente ma inesorabilmente a un oblio del pensiero. Se potessi suggerire ai filosofi importanti e agli intellettuali riconosciuti dai media una parola chiave dalla quale ricominciare a pensare e a partire dalla quale provare a ridare fiducia a un tempo che (come acutamente suggerisce Rifkin nel suo ultimo libro) deve essere innanzitutto una “civiltà dell’empatia”, suggerirei la parola “coraggio”.
Il mondo della cultura deve ripartire dal coraggio, dall’insegnare alle nuovissime generazioni a guardare il potere negli occhi per rispondere a tono. Deve insegnare la “parresìa”, il concetto foucaltiano del parlar-franco, del dire-il-vero. La cultura e la filosofia devono insegnare dai banchi di scuola a quelli dell’università che non si può far finta di niente di fronte alla prepotenza del potere che impoverisce la cultura, che degrada l’ambiente, che tutela i privilegi di pochi fortunati e lascia gli altri nella disperazione e nella povertà.
Parresìa, per Foucault, è il dovere morale di dire la verità e, allo stesso tempo, il coraggio di assumere su di sé questo dovere come soggetti.
La filosofia dovrebbe fare questo a partire dai bambini.
Mi piace, perciò, lasciare questo anno e pensare al prossimo, immaginando che siano loro i veri protagonisti di un cambiamento profondo. E questo può avvenire solo se gli educatori insegnano loro a pensare liberamente e non a conformarsi ai poteri che incontreranno sulla loro via. Lo stato di degrado etico e culturale che abbiamo raggiunto è, secondo me, proprio la realizzazione strutturale di una certa pedagogia del conformismo e dello sguardo basso davanti al potere, che legittima tutto, che fa finta di niente, che collude con esso, con l’alibi dell’impotenza di cambiare le cose.

Per questo, più che proporre per il nuovo anno i soliti aforismi e le solite letture da baci perugina, mi piace condividere l’estratto di un tema di un bambino di IV elementare, Raffaele, contenuto nel libro “La filosofia è una cosa pensierosa. Diario di un'esperienza nella scuola primaria di Chiugiana” (a cura di Anna Rita Nutarelli e Walter Pilini, Morlacchi Editore), che mi ha emozionato per la sua autenticità.
Buon anno, ragazzi!



Raffaele, IV elementare

«Il filosofo è una persona intelligente. (…) E' vestito con degli scarponcini, i pantaloni grigi, una camicia e la cravatta.Si fa un'opinione su un argomento e la dice; se invece non è sicuro, ci riflette. Egli pensa in ogni momento e vuole sapere le risposte degli altri. Pensa dentro di sé e, se sbaglia qualcosa, si corregge. Vive in campagna in una casetta di legno. Quando deve andare a lavorare, va in una casa dove ci sono altri filosofi, che riflettono e si scambiano qualche opinione. Qualche volta, forse, i filosofi si aiutano a vicenda, dandosi dei consigli. (…) Per fare il filosofo c'è molto da studiare, per imparare le cose. A me non piacerebbe fare il filosofo, perché è faticoso ed è un impegno. Se sei bravo, forse guadagni qualche soldo. Il filosofo, se ha gli occhiali, è più filosofico, perché sembra più intelligente. Se a un bambino piace la filosofia, da grande farà il filosofo. Fare il filosofo è un'esperienza che puoi cominciare a fare da quando si è bambini. Quando si è bambino, si possono dare anche risposte che non sono giuste, perché, tanto, sei un bambino.
Se invece sei un grande, devi fare attenzione a non sbagliare, perché potrebbero succedere cose, come conseguenze, che non sono belle. 
Fare il filosofo è bello ed emozionante, perché devi fare qualcosa che ha bisogno di coraggio.»

mercoledì 7 settembre 2011

Il fantasma della libertà

Voglio dedicare questo primo post settembrino de il pasto crudo alla recensione di un agile libretto che mi ha fatto molto pensare quest’estate. Si tratta di Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, di Fulvio Carmagnola e Matteo Bonazzi (Milano, Mimesis, 2011, pp. 108, € 8,00), un recente lavoro del gruppo di ricerca OT – Orbis Tertius – Ricerche sull’immaginario contemporaneo, coordinato dallo stesso Carmagnola presso l’Università di Milano Bicocca. L’affilato approccio critico di Il fantasma della libertà lo rende quasi un istant book, per l’urgenza del tema trattato, ma con un gradiente scientifico che lo allontana anni luce dai tentativi, sempre più numerosi e spesso piuttosto vacui, di definire il fenomeno Berlusconi attraverso la lente di politologie stiracchiate, salvo pervenire a esiti da rotocalco.
Carmagnola e Bonazzi, fanno interagire proficuamente la formazione teoretica con il pensiero di Jacques Lacan e questo consente loro di analizzare il berlusconismo non già come l’ennesima rappresentazione dell’ennesima leadership “ubuesca” o dell’ennesima dittatura mediatica, ma come sintomo dell’inceppamento che si è venuto a creare tra il desiderio moderno e il godimento ipermoderno.
Come si può facilmente intuire dalla produzione saggistica degli ultimissimi anni, nel dibattito scientifico si sta consolidando una linea interpretativa che tende a scorgere la cifra delle società contemporanee nel tramonto delle istituzioni (reali, come i Partiti e le organizzazioni statuali, o simboliche, come le figure pedagogiche e le istituzioni educative) che, in qualche modo, creino dei confini e dei limiti all’agire. La famosa evaporazione del padre costituisce, anche in questo caso, il grimaldello per capire come sia stato possibile arrivare dove si è arrivati, senza ricorrere al lamentoso e sterile j’accuse nei confronti delle masse. Qui si ragiona, invece, su come sia avvenuta una mutazione antropologica in cui siamo quasi condannati a un imperativo sociale che ci inchioda al godimento senza lasciare spazio al desiderio. In tal senso, e in sintonia con i recenti saggi di Žižek, Recalcati, Fiumanò, ma anche di Sloterdijk e Zoja – per altri versi – è come se l’uomo ipermoderno abbia lasciato impoverire il proprio Inconscio, inteso come giacimento del desiderio, per lasciarlo colonizzare da un Super Io sociale che, al contrario di quello che accadeva nella teoria freudiana, invece di stabilire regole e far adempiere la Legge, condanna l’umanità gadgetizzata dei talk show e dei reality a “godere”, a spingere al massimo le leve della trasformazione in turbo-consumatori.
E il fenomeno Berlusconi si iscrive proprio in questo frame: non ha più molto senso, osservano acutamente Carmagnola e Bonazzi, mettere in gioco le categorie moderne usate da Weber, Horkheimer, Habermas e neanche quelle della sociologia dei media di Castells. Berlusconi ha imposto la sua leadership all’Italia proprio perché è davvero antimoderno: egli riesce a saltare la mediazione della Legge perché personifica l’osceno della politica, tante volte utilizzato da Žižek come feticcio della contemporaneità. La differenza tra l’archetipo cinematografico del Caimano (Berlusconi nella narrazione filmica di Moretti) e l’archetipo del Divo (Andreotti in quella di Sorrentino), sta fondamentalmente nella estimità del primo, contro la distanza istituzionale  del secondo: mentre il charisma del leader moderno poggia su un grigiore disincarnato e lontano che riverbera l’assoluta alterità simbolica della Legge (Andreotti, Berlinguer), il Caimano fa dell’allegoria e del somatismo (il ghigno associato alla “parola magica” Libertà) la chiave per impersonare il desiderio delle masse. Non c’è più distanza dal corpo del leader (come nella lettura di Belpoliti) e in questo significante abita il godimento liberato dei vincoli della Legge che il pubblico adorante possiede nel suo corredo antropologico.
Allora, più che usare concetti che hanno fatto la storia del Novecento, come quello di “coscienza reificata” di Lukàcs o le teorie dei Francofortesi sul carattere di desiderio reazionario (che appartiene al potere nella misura in cui esso si esplicita come il vettore che sfrutta a suo vantaggio i desideri repressi del popolo utilizzandoli contro l’interesse di quest’ultimo), gli autori suggeriscono di utilizzare il pensiero di Deleuze e soprattutto di Foucault per analizzare il berlusconismo come peculiare forma di “potere acefalo”. Secondo Foucault, infatti, il potere non nega e non proibisce, ma “soggettivizza”, “produce”. E produce, passando a Lacan, la messa in scena del godimento, della trasgressione, perché una quota di segreto (e sui segreti, veri o dissimulati, si gioca la dialettica e la semiologia del Caimano) è “necessaria” al potere; anzi, il potere ha addirittura bisogno di un “supplemento osceno”, dice Foucault, per auto legittimarsi. E Žižek quasi parafrasando le parole del filosofo di Poitiers, rincara la dose, affermando che l’ordine simbolico non può strutturalmente stare in piedi senza un lato segreto, osceno.
Ebbene, all’interno del fantasma di questa oscenità, il leader contemporaneo, l’archetipo del Caimano, ha reso vincente la sua biopolitica, fondata su una incarnazione della coazione al godimento che rappresenta l’esito ultimo dei meccanismi di funzionamento dell’immaginario politico nel tempo della sua crisi e dello svuotamento dell’ordine simbolico ufficiale che la politica professa. E in questa politica che non abita più tra gli scranni del Parlamento ma sotto i riflettori dei talk show, i vizi privati (che un tempo dovevano essere attentamente separati dalle pubbliche virtù) costituiscono la nuova biopolitica che fa presa sui corpi e sul sentire collettivo. Il potere, dunque, “soggettivizza” incorporando la trasgressione e, attraverso la figura del Caimano, la spinta al godimento assoluto assume la forma di un imperativo categorico che rifiuta la castrazione. Ecco “cosa” è Berlusconi: la transustansazione delle paillettes e dei balconcini di “Drive in” all’interno della vita politica.
“Berlusconi non gode al posto nostro” scrivono Carmagnola e Bonazzi, “gode per tramite nostro. È lui che gode tramite l’immaginario che organizza biopoliticamente il nostro godimento idiota”.

lunedì 1 agosto 2011

Che cosa significa rivoluzione?

Ogni movimento rivoluzionario è romantico, per definizione. (Antonio Gramsci)

Le emozioni non hanno simpatia per l'ordine fisso. (Yukio Mishima)

L'arte non è uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo. (Vladimir Majakovskij)

Per fare una rivoluzione ci vogliono due cose: qualcuno o qualcosa contro cui rivoltarsi e qualcuno che si presenti e faccia la rivoluzione. (Woody Allen)

La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre. Le risposi che i Giacobini avevano ragione e che, Terrore o no, la Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta. La maestra non ritenne di fare altre domande. (Offlaga Disco Pax)



Pochi giorni fa si è tenuto, a Specchia, il consueto appuntamento con il Festival del Cinema del Reale, organizzato come sempre da Big Sur. Quest’anno la rassegna aveva come tema il delicato rapporto tra il concetto di rivoluzione e quelli di passione e visione. Apparentemente molto lontani tra loro, ma intimamente vicini e profondamente contigui. La Redazione del Festival mi ha chiesto di elaborare una riflessione su questi concetti e sulla questione etica della rivoluzione, che recentemente è tornata a essere un tema attualissimo, oltre che centrale dal punto di vista geopolitico. Per quanti non hanno avuto modo di frequentare le giornate di Specchia, mi fa piacere condividere su Il pasto crudo tale riflessione:

Da Cromwell alla Bastiglia, da Lenin a Cuba, il concetto di rivoluzione, da sempre, si porta dietro una carica sovversiva che è propria degli individui, dei gruppi sociali e dei movimenti di pensiero che sono destinati a far ripensare la Storia in un’ottica diversa da come precedentemente era pensata. Al contrario delle rivolte, passionali ma estemporanee, le rivoluzioni sono anche, sempre, rotture epistemologiche, rovesciamenti di pensiero e shock emotivi dell’umanità. Una rivoluzione non è mai solo muscolare: in assenza di pathos non v’è ombra dei suoi clamori sediziosi.

Ma, probabilmente, non c’è solo una caratterizzazione illuministica e progressista delle rivoluzioni. In altri termini: esse non sono esclusivamente “le locomotive della storia”, bella immagine di Marx per alludere alla loro carica di emancipazione e di progresso rispetto a una condizione precedente di sottomissione o di minorità (politica o culturale).

Come osserva bene Gramsci, il concetto di rivoluzione detiene al suo interno una forte carica romantica. Le rivoluzioni, pertanto, hanno a che fare fondamentalmente col desiderio; appartengono innanzitutto alla sfera delle emozioni, prima che a quella della ragione e della prassi. Come dire, non vi sarebbe prassi senza desiderio e, guarda caso, l’etimo latino del termine desiderio (de-sidera: “intorno alle stelle”) pare curiosamente strizzare l’occhio all’altra accezione, quella astronomica, di rivoluzione. La tensione verso le stelle, ciò che di più irraggiungibile vi è per l’uomo – o al contrario (pensando il de come un privativo), il distogliere lo sguardo dalla rotta notturna segnata dalle stelle, come metafora del disorientamento, del meraviglioso e perturbante smarrimento che i desideri impongono alla ragione –, si lega intimamente alla forza viscerale che da sempre le rivoluzioni consegnano all’immaginario umano. Se, come suggerisce la psicoanalisi di Lacan, il desiderio veicola attraverso lo sguardo e si alimenta degli appetiti che esso raggranella, il concetto di rivoluzione possiede già al suo interno quelli di visione e di passione. Non c'è rivoluzione senza una visione e senza la passione. Se la rivoluzione è il soggetto, la visione è il suo complemento di causa e la passione è il suo complemento di mezzo. Si parte da una visione delle cose, quanto più possibile lucida e anticipatrice degli scenari che verranno e la si incastona all'interno di una tensione emotiva che ne delinei le strategie e le possibilità di attuazione.

Ecco perché le rivoluzioni non possono essere solo il frutto di una ideologia, giacché anche dietro ogni movimento ideologico non c’è solo la massa ma c’è sempre, primariamente, il singolo che desidera, che si dispera, che tenta di rendere reale una visione, una immagine passionale che tende a un mondo migliore.

Ecco perché le arti sono fondamentali per la coscienza collettiva dei movimenti rivoluzionari, almeno quanto la politica stessa. Non è possibile analizzare l’immaginario rivoluzionario senza “abitare” i suoi consumi artistici, proprio perché l’arte alimenta lo sguardo, nutre il desiderio e quindi genera la visione e la passione che stanno alla base delle rivoluzioni. Analizzare queste ultime esclusivamente rispetto alle loro dimensioni strutturali (istituzionali, politiche, socio-economiche, ecc.), non è molto utile in termini di comprensione completa del fenomeno, o quanto meno costituisce una riduzione di complessità. Per questo motivo, forse, la cruda osservazione dei fatti sociali che spesso sembrano solo malattie di una collettività confusa, ma che invece costituiscono la trasposizione di dolori e ferite individuali di una umanità suo malgrado “alienata” e non più a suo agio, può arricchirsi e ampliarsi quando si considera la cornice desiderativa di tali fatti.

Le rivoluzioni, in questo senso, non servono solo alla Storia, alle masse, alle classi sociali, o meglio ne migliorano le condizioni e ne emancipano la struttura solo a patto di aver, precedentemente, costituito una “esperienza di cambiamento individuale”. In termini psicoanalitici, dunque, le rivoluzioni sono innanzitutto un insight dell’individuo, cioè una occasione di trasformazione che, mentre cambia i contenuti emotivi di chi ne fa esperienza, produce verità. L’insight è una esperienza di verità che cura, che produce cura di sé, direbbe Foucault. E questo è lo scarto finale delle esperienze rivoluzionarie: partire da un desiderio che genera una visione del mondo diversa da quella esistente, caricarla di contenuti passionali per metterla in atto e accogliere la trasformazione individuale e collettiva che la rivoluzione genera come esperienza di verità dei soggetti.

Desiderio, visione, passione, verità, dunque.

Ma la cosa più affascinante della faccenda è che le rivoluzioni, come concetto, sono sempre destinate a “superarsi”, sono costitutivamente votate al superamento: ogni rivoluzione è superata da una ulteriore rottura, e poi da un’altra successiva, e da un’altra ancora, e così via. In questo modo l’esperienza di verità che si portano dietro non diventa mai assoluta, sventa il rischio di cristallizzarsi e divenire totalitarismo, tanto politico, quanto culturale. Ecco perché non dovremmo mai aver paura delle rivoluzioni ma, al contrario, auspicarne sempre una, di tanto in tanto. Per non abituarci alla verità che, dopo un po’, diventa dogma.



lunedì 11 luglio 2011

La grande musica in Puglia passa fuori dal mainstream. L’avanguardia immortale dei Tuxedomoon.

Quest’anno il tormentone estivo è quello della Puglia musicale, la Puglia alternativa, Lecce culla della musica, Italia wave, ecc ecc.
Ma molto spesso, lontano dal mainstream dei grandi eventi e dei festival da milioni di euro, la migliore musica, quella che non flirta con le radio e con le produzioni modaiole, passa da posti non consegnati agli onori delle recensioni e da nicchie preziose, dove la musica di grandissima qualità viene conservata e impreziosita.

E allora capita di assistere nella piazzetta del celeberrimo Angelé di Manduria a un concerto, bellissimo, di Hugo Race, storico chitarrista di Nick Cave and the Bad Seeds, di divertirsi col pop scanzonato degli Stereo Total, al Sudest Studio tra le campagne di Campi Salentina. Ma soprattutto di godere di un concerto dei Tuxedomoon, in una piazza che ospita al massimo duecento persone!

Sebbene l’evento non abbia goduto di una pubblicità diffusa, venerdì sera la storica band californiana di Steven Brown e Blaine Reininger ha suonato ad Alberobello per il lungo tour mondiale di lancio del nuovo disco antologico, Unearthed. Un autentico “regalo” al sud e alla Puglia, che peraltro ha già visto approdare i Tuxedomoon dalle sue parti negli anni Ottanta (due concerti al teatro Petruzzelli di Bari che sono rimasti nella storia) e per tutti i Novanta, sebbene rapsodicamente.

È difficile – lo dico subito – raccontare questo evento in maniera cronachistica per uno che a diciassette anni ha comprato su segnalazione di amici il vinile di Half mute (LP d’esordio del 1980), primo long playing e disco manifesto della band di San Francisco, e dopo averlo ascoltato convulsamente in una specie di stato alterato di coscienza, ha in qualche modo cambiato la propria concezione della musica.

Tutti abbiamo un disco e un gruppo che hanno lasciato un segno emozionale nella storia dei nostri ascolti e i Tuxedomoon sono il mio, così quando ho appreso del concerto ad Alberobello, mi sono sfregato gli occhi e ho avuto una incontenibile esplosione di entusiasmo adolescenziale, lo stesso provato quando li ho rivisti nel 2004, al bellissimo concerto del Palamazzola di Taranto!

Arriviamo in Piazza del Trullo Sovrano con un’ora di anticipo, manco a dirlo. La cosa strana è che non siamo i soli e col passare dei minuti una piccola folla gentile stringe gli spazi di fronte all’entrata principale del botteghino. C’è gente di tutte le età e il target è veramente difficile da decifrare a primo impatto. Penso che il migliore Tondelli delle cronache urbane di Un weekend postmoderno, si sarebbe divertito ad analizzare quel popò di fauna notturna nei suoi moleskine…Ci sono pochissimi ventenni, alcuni dei quali acconciati come dark del ’85 (!), molti ultra-trentenni che, come me, hanno conosciuto i Tuxedomoon sull’onda lunga di una eco che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta già si era consolidata attorno alla cult band; moltissimi ultra-quarantenni, credo la maggioranza, in febbricitante attesa e con addosso le vestigia di un passato da new wavers; parecchi ultra-cinquantenni ultracool, tipo abito Vivienne Westwood-codino-orecchino-gauloise.

Negli ultimi dieci anni ne ho visti di concerti, progressivamente sempre più distante dall’impeto dei miei vent’anni, ma ai live di Brown, Raininger e compagni mi sento sempre emozionato come un bambino, cosa che non mi succedeva da tempo. Neanche il tempo di sederci, a pochi metri dal palco, e uno scrosciante applauso saluta l’ingresso dei Tuxedomoon. Il primo a entrare è Peter Principle, col suo basso Gibson Diavoletto, poi Gus Van Lieshout, il trombettista e polistrumentista unitosi alla band a fine anni Ottanta e nientemeno che Bruce Geduldig, il videoperformer storico della band, ritornato a suonare coi suoi amici di sempre dopo anni di allontanamento; e infine, applauditissimi, i fondatori Blaine Reininger col suo inconfondibile violino e le sue chitarre minimali e Steven Brown, col suo sax e le tastiere di sempre. Il pathos, tra i trulli, è incontenibile e il primo pezzo, lo storico The Waltz, accende gli animi, tra le luci basse ed essenziali e le note cadenzate e toccanti…a stento trattengo l’emozione!

La scaletta, grosso modo, è composta nella prima parte dai pezzi degli ultimi due album e nella seconda dai pezzi storici della band californiana, da Joeboy a Litebulb Overkill, da Tritone a Everything you want, con una serie infinita di bis richiesti dal pubblico in piedi ad applaudire per oltre cinque minuti.

La qualità della musica suonata dal vivo è davvero incredibile e c’è un’aria poetica e distesa, come si conviene a cinque amici che suonano insieme da più di trent’anni e che hanno sempre deciso di fregarsene del mercato discografico per dare spazio e respiro a progetti musicali unicamente volti al loro personalissimo e raffinato gusto artistico.

Per inciso, visto che il nome dei Tuxedomoon è stato sempre legato a un pubblico di nicchia, due parole sulla storia del gruppo; la band nasce a San Francisco nel 1977 quando la transizione dal rock al punk è passata da una fase di sperimentazione, successivamente denominata new wave, che cresceva dagli Usa attraverso i nomi dei Talking Heads, dei Television, di Patty Smith, dei Devo, dei Cabaret Voltaire; i Tuxedomoon codificarono tutta l’alienazione postmoderna di quelle forme espressive in una nuova forma che univa lo stesso grido urbano ad arabeschi musicali meno duri e a tratti barocchi, con l’innesto di spunti teatrali brechtiani e della prima visual art e con una ibridazione musicale che mescolava l’approccio punk ai primi sinth elettronici e una sorta di free jazz ai violini sublimi di Reininger…insomma il punk si ingentiliva di letteratura e simbologie colte per assumere i tratti di una musica da camera, sebbene altrettanto nichilista.

Album come Half Mute, Desire, Holy Wars, hanno segnato la storia della musica d’avanguardia e il concerto di Alberobello esprime tutta la loro voglia di continuare un presente musicale in continuo sviluppo, sempre con lo stesso stile raffinato, da espressionisti dei sensi.

Un grandissimo spettacolo, lontano dagli accenti spettacolari. Segno che, come al solito, le cose migliori non passano dalla ribalta del tritacarne mediatico e che la provincia, zitta zitta, fa le scarpe ai grandi eventi cittadini.



venerdì 17 giugno 2011

La sinistra “barzotta” e il risveglio dell’uomo qualunque

Questo periodo costituisce un pasto succulento per i giornalisti, per gli analisti, per i sociologi, per i politologi.

C’è così tanto materiale da osservare e interpretare da intasare i palinsesti dei prossimi 12 mesi. Era da tanto che non assistevo a un simile profluvio di fenomeni mediatici: una vera abbuffata comunicativa che viaggia sull’esile linea che unisce la politica al costume. Il definitivo tracollo psichico di Berlusconi (già testimoniatoci nei mesi precedenti dalla sberluccicante serie di tic/barzellette/rotture diplomatiche del Premier); il detournement dei rapporti di forza precedenti, cristallizzato nell’onda (più o meno) rossa delle amministrative (prima) e nella vittoria del SI al referendum (dopo); gli svarioni dei colonnelli del centrodestra, in preda a una vera e propria sindrome del si-salvi-chi-può; i “dico e non dico” di Napolitano; il de profundis fatto dai cosiddetti intellettuali di destra (Ferrara e Feltri, in testa) nei confronti del Cavaliere; infine il pasticciaccio mediatico di una serie di Ministri, vittime di qualcosa di molto simile al Ballo di San Vito (pensate alle dichiarazioni decerebrate fatte recentemente da Maroni e da Brunetta).

Un vero lunapark per le testate giornalistiche! Una vera casa di marzapane da leccare fino allo spasimo intestinale per tutti coloro i quali, per lavoro, tentano di decodificare l’attualità.

Il filo rosso della stampa italiana porta a interpretare questo periodo come una forma di “apocalisse culturale”, di caduta della “seconda Repubblica”, di fine del sogno berlusconiano. Il PD, l’IDV, le altre forze di opposizione e il terzo polo tentano di appaltare questo momento glorioso come una rivincita della sinistra, o quanto meno come un rigetto fisiologico del governo del “ghe pensi mi” dal corpus dello Stato.

Bersani, improvvisamente rimbarzottito, si presenta ai talk show luminescente, olimpionico, come il vettore del cambiamento; Di Pietro pare quasi aver imparato la sintassi italiana e persino il nostro Vendola, il mio Vendola, sembra essere arrivato a quella che la teologia definisce “transustanziazione”, rilasciando dichiarazioni epiche in cui si sente spesso il profumo di viole, come durante le apparizioni di Padre Pio. La Sinistra è rinata ma la sua rinascita non viene dalla politica dei partiti e dei quadri di partito.

Come quando il problema non era Berlusconi ma l’antropologia berlusconiana di ogni italiano, ora la vittoria non è dei Partiti ma della gente che ha deciso di non far languire più, neghittosamente, il proprio voto in tasca. La vittoria, anche in questo caso è antropologica, non politica.

Detto altrimenti, la sinistra ha il sacrosanto diritto e dovere di cavalcare al meglio quest’onda di cambiamento e di dimostrare cosa si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Stavolta, credo, sarà difficile non vincere le politiche. Sarebbe un suicidio.

Ma, vincendo, non ci sono più scuse: occorrerà davvero stabilire una scala di priorità per non tornare a essere dalemiani. Primo: legge sul conflitto d’interesse. Secondo: bonifica della precarietà nel lavoro. Terzo: riforma della scuola e inversione dei tagli all’università e ai comparti della cultura. Quarto: welfare. Quinto: giustizia. Poi, di seguito, tutte le altre priorità. Magari non in quest’ordine, ma le cose vanno aggiustate! (E soprattutto non farsi autogoal alle prossime elezioni: quello che proprio non digeriremmo è un Berlusconi Capo dello Stato…e non è una prospettiva così venusiana..)

Insomma, il fatto che questo cambiamento sia venuto dalla Rete è indice di un elemento a mio parere molto importante: il vero grimaldello del cambiamento non è tanto il passaggio della barra da destra a sinistra, quanto il risveglio delle frange qualunquiste della popolazione. L’uomo qualunque viene preso a sberle dall’immensa auto-convocazione mediatica dei social network. L’associazionismo porta più voti dei Partiti.

I Partiti ora imparino dagli errori commessi in passato e mostrino i muscoli che negli anni Novanta parevano rattrappiti e anchilosati.

È già la seconda dittatura che ci sorbiamo…non basta?



venerdì 3 giugno 2011

Contro il nucleare. Di nuovo!

Come si potrebbe definire in termini clinici: “coazione a ripetere”? O “sindrome ossessivo-compulsiva”?

Fatto sta che l’Italia è l’unico Paese dove la volontà popolare, per avere valore, dev’essere ridondante, deve ribadire, riaffermare, replicare continuamente!

Stiamo per andare a votare tutti per il SI – voglio augurarmi – ai quattro referendum abrogativi del 12 e 13 giugno, ma la cosa incomprensibile è che gli italiani avevano già espresso il loro dissenso all’atomo.

L' 8 e 9 novembre 1987 si votò in Italia per cinque quesiti referendari: due sulla giustizia e tre sul nucleare. Il testo di questi ultimi era il seguente:

  1. Volete che venga abrogata la norma che consente al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti? 
(la norma a cui si riferisce la domanda è quella riguardante "la procedura per la localizzazione delle centrali elettronucleari, la determinazione delle aree suscettibili di insediamento", previste dal 13° comma dell'articolo unico legge 10/1/1983 n.8)

  2. Volete che venga abrogato il compenso ai comuni che ospitano centrali nucleari o a carbone? 
(la norma a cui si riferisce la domanda è quella riguardante "l'erogazione di contributi a favore dei comuni e delle regioni sedi di centrali alimentate con combustibili diversi dagli idrocarburi", previsti dai commi 1,2,3,4,5,6,7,8,9,10,11,12 della citata legge)

  3. Volete che venga abrogata la norma che consente all’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica) di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all'estero? 
(questa norma è contenuta in una legge molto più vecchia, e precisamente la N.856 del 1973, che modificava l’articolo 1 della legge istitutiva dell’ENEL).

In tutti i casi vinse il SI all’abrogazione con l’80% circa dei voti. Dunque con il referendum abrogativo del 1987 è stato "di fatto" sancito l'abbandono, da parte dell'Italia, del ricorso al nucleare come forma di approvvigionamento energetico.

Ora, col decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010, di fatto il Governo riapre la strada alle centrali nucleari. La cosa più grave, tuttavia, è che non raggiungendo il fatidico quorum del 50% la consultazione verrebbe invalidata e tra una decina d’anni potremmo ammirare le rigorose linee architettoniche di una centrale nucleare proprio sotto casa.

Ecco il nuovo e definitivo quesito che troveremo sulle schede: "Volete che siano abrogati i commi 1 e 8 dell'articolo 5 del d.l. 31/03/2011 n. 34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75?"

Ora: non che i tre rimanenti referendum (uno sul legittimo impedimento e due sulla privatizzazione dell’acqua) siano meno importanti, ma la storia ci insegna che al transitare dei governi molte cose cambiano. Quello che è meno reversibile, come processo industriale, è invece l’inizio dei lavori per la costruzione di centrali nucleari.

Il 12 e 13 giugno, gli Italiani hanno dunque la possibilità di confermare la voglia di rinnovamento che sta emergendo, forte, nelle ultime settimane e di assicurare il quorum a un fondamentale punto di snodo per il nostro futuro prossimo.

Domenica 12 farà sicuramente già molto caldo, ma per una volta, mettiamo in secondo piano lu sule e lu mare, e dimostriamo di essere responsabili! Potrebbe bastare che ognuno di noi porti due persone a votare.