martedì 20 marzo 2012

Che cos’è una cicatrice

Tributo alla filosofia del “soggetto diviso” nei dieci anni dalla morte di Carmelo Bene

Negli ultimi giorni mi capita spesso di confrontarmi con amici con i quali condividiamo interessi e passioni, sulla imponente mole di eventi, piccoli e grandi, che Lecce e il Salento stanno mettendo in cantiere per la celebrazione dei dieci anni dalla morte di Carmelo Bene.
L’idea comune, molto spesso, è una sorta di fastidio per la sensazione sgradevole che, anche in questo caso, l’immenso lascito artistico e culturale di C.B. possa essere reso funzionale alla (da noi) tanto detestata iconografia del Salento da cartolina e contribuire a quel mefitico marketing culturale che banalizza il pensiero e lo impacchetta in confezioni tanto luccicanti quanto vacue.
Chi ha incontrato, amato, studiato C.B., sa perfettamente che il suo lavoro e la sua ricerca non hanno mai flirtato col potere istituzionale, finanche quando l’istituzione ha finanziato la cultura. Il suo percorso artistico non era quello di un istrione narcisista, sebbene la sua rappresentazione più immediata fosse proprio quella di un istrione narcisista. Basta leggere i suoi scritti per comprendere come C.B. sarebbe rimasto disgustato dall’essere celebrato come “soggetto”.
C.B., molto lapidariamente, ha costruito tutta la sua formazione su un’idea, sempre coerente, sempre costante: quella della “dissoluzione del soggetto”. Tutti i suoi riferimenti teorici, dalla filosofia alla psicoanalisi, dalla drammaturgia alla letteratura, erano tasselli dai contorni precisi attraverso i quali ha sempre, proditoriamente, fino allo spasimo insistito su tale questione: la “perdita” del soggetto, il suo “essere bucato”, il suo essere diviso, barrato, il suo non essere mai coeso, solido, univoco. E per C.B. questo soggetto non era solo “l’altro”; era, per primo, egli stesso.
Tante volte ha provato a convincere i media che lo ospitavano come freak più che come intellettuale, che egli, per primo, non si prendeva sul serio come “soggetto” della sua stessa storia culturale. Quando, parafrasando Lacan (uno dei suoi riferimenti fondamentali) ripeteva che egli “era parlato”, piuttosto che “parlare”, ha suscitato non di raro sciocchi sorrisi sulle labbra di chi pensa che la cultura debba avere un ruolo rassicurante per la società. C.B. sapeva perfettamente che il pensiero, al contrario, deve essere tutt’altro che rassicurante: deve produrre shock, rivoluzioni, tagli. Aveva assorbito completamente Nietzsche, C.B.!
Aveva digerito l’idea del tramonto di se stessi, dell’oltre che il Novecento aveva reso la nuova cifra di una umanità non più a suo agio. Mi piace immaginare che se qualcuno avesse chiesto a C.B. “Maestro, come le piacerebbe essere celebrato per i dieci anni dalla sua morte?”, egli avrebbe risposto di non renderlo “puttana di Stato”…puttana si, ma non “di Stato”.
Avrebbe preferito lavori di ricerca, piuttosto che cronache biografiche e happening utili solo alle passerelle delle istituzioni e di chi si aggrappa a esse come un paguro cicisbeo. La falsa epica lo faceva rivoltare. Convinto di quest’idea, non voglio quindi unirmi al coro di chi, istituzionalmente, incastona C.B. –malgré soi – all’interno della mirabolante epica del Salento patria di eroi, santi e filosofi, radicalizzando la provinciale e becera estetica di glorificazione territoriale tanto cara agli amanti della Regione Salento.
Né mi sembra utile, qui, ricostruire la storia del suo pensiero e dei suoi riferimenti teorici, che chiunque può rintracciare, se ne avesse interesse, nel suo lavoro e nei suoi scritti. Provo perciò a isolare un paio di idee su quello che C.B. può aver costituito per la nostra cultura tardo-moderna, non come “soggetto” di teatro ma come vettore di un pensiero filosofico.
Troppo semplice ripercorrere la sua formazione post-strutturalista; i suoi vagabondaggi con Artaud, De Saussure, Lacan, Deleuze; la sua straordinaria rilettura della storia della phoné. Le celebrazioni lo avrebbero fatto sorridere perché C.B., fondamentalmente, lavorava a un continuo tentativo di “mettersi K.O. come soggetto”, tanto per usare una sua espressione.
Cos’è, dunque, un artista, un intellettuale, se non è un soggetto? Quale metafora possiamo utilizzare per alludere alla infinita ricchezza di pensiero insita nella sua opera? Mi piace pensare C.B. come il concetto stesso di “cicatrice”. L’esito cicatriziale del Novecento.
Cos’è una cicatrice?
Fondamentalmente è la rappresentazione fisica di chi porta addosso il senso della sua stessa evoluzione. È l’allusione a qualcosa morto, che non c’è più, in seno a ciò che rimane vivo. Ecco, C.B. è stato una cicatrice della sua stessa soggettività, un soggetto cicatrizzato, che parla di se stesso come metonimia della vita sociale del suo tempo, senza per questo “credersi” un soggetto. Diceva Lacan “Un uomo che si crede un re è un pazzo; ma un re che si crede un re è ancora più pazzo!” e C.B. portava il senso di questa battuta nella carne viva del suo lavoro.
Da una parte, dunque, la filosofia del soggetto bucato, scisso; del lacaniano “soggetto barrato”, ossia della convinzione secondo la quale, come diceva Freud, “l’Io non è padrone in casa propria”, della consapevolezza per cui il soggetto moderno vive in un continuo stato di non-padronanza di sé in quanto preda di un fisiologico iato tra la sua parte cosciente e la struttura inconscia del linguaggio e delle pulsioni che Lacan chiamava Grande Altro.
Dall’altra, l’atteggiamento titanico dell’intellettuale che, sebbene preda di questo gap irrisolvibile della soggettività, non rinuncia a dire (anzi a “lasciarsi dire”) la sua condizione di oblio della presenza.
C.B., nel suo teatro dell’irrappresentabile, ha sempre messo in scena questo: l’impossibilità del soggetto a essere “presente a se stesso”. E in tale denuncia sta il senso dell’arte. Non in una rappresentazione eroica dell’artista come soggetto dell’emancipazione o del sollazzo del popolo. Il soggetto come cicatrice del suo tempo, dunque.
È un tema già presente in Heidegger, quando, in Saggi e Discorsi (1954) introduce il termineVerwindung, letteralmente re-missione/oltrepassamento, nozione che, tuttavia, non allude a un “superamento”. Verwindung implica tutte le sfumature di significato che il verbo italianorimettere, sia nel modo attivo, sia nel modo medio-passivo, suggerisce: “rimettersi da qualcuno” (il soggetto come entità trascendentale), “rimettere qualcosa” (un abito mentale), ri-mettersi come “inviarsi nuovamente” (re-mitto), “rimettersi da una malattia” (appunto come “esito cicatriziale”), ma con, in più, l’idea del distorcimento che riprende. La Verwindung, cioè, indica un atteggiamento di distorsione che è allo stesso tempo proseguimento (consapevolezza di una provenienza storica) e tradimento (istanza di rivoluzione).
Il discorso, filosoficamente, pare molto tortuoso e di difficile comprensione, ma è molto più semplice di quanto si pensi. Il soggetto, detto altrimenti, è sempre convalescente da se stesso e dalla struttura culturale che ne rappresenta il contesto. E la sua opera non è “rappresentazione” ma cicatrice di questa convalescenza/Verwindung. In questo senso l’opera di C.B. si iscrive all’interno di una filosofia del “soggetto diviso”. Il soggetto non è compatto ma rapsodico, effetto delle molteplici polifonie del suo inconscio e dell’immaginario collettivo che attraverso di esso parla.
Ecco perché il continuo vezzo di C.B. di sottolineare la sua inattualità, il suo essere classico nel senso di non-contemporaneo. C.B. odiava il concetto di presenza non solo all’interno del soggetto, ma anche all’interno del tempo, del nostro tempo. Esattamente quello che scriveva Nietzsche nell’aforisma 125 de La gaia scienza sulla “morte di Dio”, in cui il filosofo parlava dell’eterno ritorno dell’uguale, che significa, tra l’altro, la fine dell’epoca del superamento, dell’essere pensato sotto il segno del novum.
Vaglielo a spiegare agli artisti “contemporanei”!