mercoledì 21 dicembre 2011

La filosofia e il coraggio

Sta finendo un anno strano. Un anno apparentemente pieno di trasformazioni, di rivolgimenti più o meno eclatanti nelle strutture politiche e sociali. Gli scrittori di fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta immaginavano la prima decade del XXI secolo come il tempo della tecnologia spaziale, dell’incontro con nuovi mondi e nuovi paradigmi dell’umano. Ma il 2010, più che “l’anno del contatto” con universi ultra-terrestri, è stato l’anno del contatto con vecchie questioni irrisolte di un passato antropologico ancora convalescente e poco metabolizzato. E il 2011, con la Primavera Araba, ha ricollocato questo passato in una cornice molto più cruda ma vera: quella del dissidio sanguinoso tra i sistemi politici dittatoriali e il coraggio della rivoluzione.
In questo senso il 2011 può rimanere nell’immaginario collettivo come un anno in qualche modo caratterizzato dalla tecnologia, ma non la tecnologia delle navicelle e delle tute al carbonio di Blade Runner, né della comunicazione con mondi alieni, così come prefigurato dai romanzi sci-fi.
La tecnologia che ha caratterizzato le trasformazioni di questo tempo è “semplicemente” quella della Rete, che ha permesso anche in contesti poco avvezzi all’edonismo digitale dell’Occidente di raccogliersi attorno a un’idea di riappropriazione della libertà di darsi un futuro, ammesso che quest’auspicio, nei prossimi anni, passi dalle intenzioni alla realtà.
In Italia è sembrato, solo poche settimane fa, di assistere a una nuova liberazione. Sbarazzarsi del nostrano Ubu Re all’amatriciana per risvegliarsi in un apparente grado zero di una non meglio precisata terza repubblica (salvo ritrovarsi nelle pieghe neghittose di un Governo tecnico che ha barattato la politica da lap dance precedente con l’algido ritorno a un sistema old style, che tuttavia continua a promettere – in piena continuità col precedente – lacrime e sangue solo agli strati deboli della popolazione).

Ernesto De Martino definiva questi periodi “apocalissi culturali”, ovvero fasi della storia caratterizzate da una specie di sospensione tra il “non-più” e il “non-ancora”. Ma, come spesso accade nelle epoche più delicate (come i periodi bellici), il gran caos delle apocalissi culturali costituisce il terreno fertile per l’affermazione degli interessi dei più potenti, dei più ricchi, di coloro che detengono una qualche discrezionalità sui sistemi socio-economici di riferimento.

La filosofia, la letteratura, l’arte, in questo senso, hanno da sempre costituito l’antidoto alla colonizzazione dei poteri forti, che sguazzano nella crisi come porci nel fango.
Il problema è capire quali, di volta in volta, siano le parole chiave attorno alle quali ricominciare a costruire un racconto e un vettore di cambiamento. Come possiamo interpretare questo periodo storico, al di là dei più appariscenti cambiamenti sociali, economici, antropologici? È davvero così netta questa presunta liberazione? Siamo proprio così convinti che liberandosi dai dittatori il Nord-Africa si sia liberato dalla dittatura come forma di controllo? Siamo proprio convinti che liberandoci da Berlusconi ci siamo liberati dal berlusconismo?

Non mi piace l’idea di lanciare una riflessione per il nuovo anno con l’amarezza di uno scenario pessimistico ma probabilmente quello che davvero può far cambiare la posta in gioco è proprio smantellare ciò che del berlusconismo ha costituito l’essenza, ossia il delegare la responsabilità del pensare, il distogliere lo sguardo critico e rintanarsi nell’individualismo delle storie personali, sempre più distratti dalle paillettes e dai cotillons che da Drive In agli Amici di Maria De Filippi hanno portato lentamente ma inesorabilmente a un oblio del pensiero. Se potessi suggerire ai filosofi importanti e agli intellettuali riconosciuti dai media una parola chiave dalla quale ricominciare a pensare e a partire dalla quale provare a ridare fiducia a un tempo che (come acutamente suggerisce Rifkin nel suo ultimo libro) deve essere innanzitutto una “civiltà dell’empatia”, suggerirei la parola “coraggio”.
Il mondo della cultura deve ripartire dal coraggio, dall’insegnare alle nuovissime generazioni a guardare il potere negli occhi per rispondere a tono. Deve insegnare la “parresìa”, il concetto foucaltiano del parlar-franco, del dire-il-vero. La cultura e la filosofia devono insegnare dai banchi di scuola a quelli dell’università che non si può far finta di niente di fronte alla prepotenza del potere che impoverisce la cultura, che degrada l’ambiente, che tutela i privilegi di pochi fortunati e lascia gli altri nella disperazione e nella povertà.
Parresìa, per Foucault, è il dovere morale di dire la verità e, allo stesso tempo, il coraggio di assumere su di sé questo dovere come soggetti.
La filosofia dovrebbe fare questo a partire dai bambini.
Mi piace, perciò, lasciare questo anno e pensare al prossimo, immaginando che siano loro i veri protagonisti di un cambiamento profondo. E questo può avvenire solo se gli educatori insegnano loro a pensare liberamente e non a conformarsi ai poteri che incontreranno sulla loro via. Lo stato di degrado etico e culturale che abbiamo raggiunto è, secondo me, proprio la realizzazione strutturale di una certa pedagogia del conformismo e dello sguardo basso davanti al potere, che legittima tutto, che fa finta di niente, che collude con esso, con l’alibi dell’impotenza di cambiare le cose.

Per questo, più che proporre per il nuovo anno i soliti aforismi e le solite letture da baci perugina, mi piace condividere l’estratto di un tema di un bambino di IV elementare, Raffaele, contenuto nel libro “La filosofia è una cosa pensierosa. Diario di un'esperienza nella scuola primaria di Chiugiana” (a cura di Anna Rita Nutarelli e Walter Pilini, Morlacchi Editore), che mi ha emozionato per la sua autenticità.
Buon anno, ragazzi!



Raffaele, IV elementare

«Il filosofo è una persona intelligente. (…) E' vestito con degli scarponcini, i pantaloni grigi, una camicia e la cravatta.Si fa un'opinione su un argomento e la dice; se invece non è sicuro, ci riflette. Egli pensa in ogni momento e vuole sapere le risposte degli altri. Pensa dentro di sé e, se sbaglia qualcosa, si corregge. Vive in campagna in una casetta di legno. Quando deve andare a lavorare, va in una casa dove ci sono altri filosofi, che riflettono e si scambiano qualche opinione. Qualche volta, forse, i filosofi si aiutano a vicenda, dandosi dei consigli. (…) Per fare il filosofo c'è molto da studiare, per imparare le cose. A me non piacerebbe fare il filosofo, perché è faticoso ed è un impegno. Se sei bravo, forse guadagni qualche soldo. Il filosofo, se ha gli occhiali, è più filosofico, perché sembra più intelligente. Se a un bambino piace la filosofia, da grande farà il filosofo. Fare il filosofo è un'esperienza che puoi cominciare a fare da quando si è bambini. Quando si è bambino, si possono dare anche risposte che non sono giuste, perché, tanto, sei un bambino.
Se invece sei un grande, devi fare attenzione a non sbagliare, perché potrebbero succedere cose, come conseguenze, che non sono belle. 
Fare il filosofo è bello ed emozionante, perché devi fare qualcosa che ha bisogno di coraggio.»