lunedì 1 agosto 2011

Che cosa significa rivoluzione?

Ogni movimento rivoluzionario è romantico, per definizione. (Antonio Gramsci)

Le emozioni non hanno simpatia per l'ordine fisso. (Yukio Mishima)

L'arte non è uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo. (Vladimir Majakovskij)

Per fare una rivoluzione ci vogliono due cose: qualcuno o qualcosa contro cui rivoltarsi e qualcuno che si presenti e faccia la rivoluzione. (Woody Allen)

La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre. Le risposi che i Giacobini avevano ragione e che, Terrore o no, la Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta. La maestra non ritenne di fare altre domande. (Offlaga Disco Pax)



Pochi giorni fa si è tenuto, a Specchia, il consueto appuntamento con il Festival del Cinema del Reale, organizzato come sempre da Big Sur. Quest’anno la rassegna aveva come tema il delicato rapporto tra il concetto di rivoluzione e quelli di passione e visione. Apparentemente molto lontani tra loro, ma intimamente vicini e profondamente contigui. La Redazione del Festival mi ha chiesto di elaborare una riflessione su questi concetti e sulla questione etica della rivoluzione, che recentemente è tornata a essere un tema attualissimo, oltre che centrale dal punto di vista geopolitico. Per quanti non hanno avuto modo di frequentare le giornate di Specchia, mi fa piacere condividere su Il pasto crudo tale riflessione:

Da Cromwell alla Bastiglia, da Lenin a Cuba, il concetto di rivoluzione, da sempre, si porta dietro una carica sovversiva che è propria degli individui, dei gruppi sociali e dei movimenti di pensiero che sono destinati a far ripensare la Storia in un’ottica diversa da come precedentemente era pensata. Al contrario delle rivolte, passionali ma estemporanee, le rivoluzioni sono anche, sempre, rotture epistemologiche, rovesciamenti di pensiero e shock emotivi dell’umanità. Una rivoluzione non è mai solo muscolare: in assenza di pathos non v’è ombra dei suoi clamori sediziosi.

Ma, probabilmente, non c’è solo una caratterizzazione illuministica e progressista delle rivoluzioni. In altri termini: esse non sono esclusivamente “le locomotive della storia”, bella immagine di Marx per alludere alla loro carica di emancipazione e di progresso rispetto a una condizione precedente di sottomissione o di minorità (politica o culturale).

Come osserva bene Gramsci, il concetto di rivoluzione detiene al suo interno una forte carica romantica. Le rivoluzioni, pertanto, hanno a che fare fondamentalmente col desiderio; appartengono innanzitutto alla sfera delle emozioni, prima che a quella della ragione e della prassi. Come dire, non vi sarebbe prassi senza desiderio e, guarda caso, l’etimo latino del termine desiderio (de-sidera: “intorno alle stelle”) pare curiosamente strizzare l’occhio all’altra accezione, quella astronomica, di rivoluzione. La tensione verso le stelle, ciò che di più irraggiungibile vi è per l’uomo – o al contrario (pensando il de come un privativo), il distogliere lo sguardo dalla rotta notturna segnata dalle stelle, come metafora del disorientamento, del meraviglioso e perturbante smarrimento che i desideri impongono alla ragione –, si lega intimamente alla forza viscerale che da sempre le rivoluzioni consegnano all’immaginario umano. Se, come suggerisce la psicoanalisi di Lacan, il desiderio veicola attraverso lo sguardo e si alimenta degli appetiti che esso raggranella, il concetto di rivoluzione possiede già al suo interno quelli di visione e di passione. Non c'è rivoluzione senza una visione e senza la passione. Se la rivoluzione è il soggetto, la visione è il suo complemento di causa e la passione è il suo complemento di mezzo. Si parte da una visione delle cose, quanto più possibile lucida e anticipatrice degli scenari che verranno e la si incastona all'interno di una tensione emotiva che ne delinei le strategie e le possibilità di attuazione.

Ecco perché le rivoluzioni non possono essere solo il frutto di una ideologia, giacché anche dietro ogni movimento ideologico non c’è solo la massa ma c’è sempre, primariamente, il singolo che desidera, che si dispera, che tenta di rendere reale una visione, una immagine passionale che tende a un mondo migliore.

Ecco perché le arti sono fondamentali per la coscienza collettiva dei movimenti rivoluzionari, almeno quanto la politica stessa. Non è possibile analizzare l’immaginario rivoluzionario senza “abitare” i suoi consumi artistici, proprio perché l’arte alimenta lo sguardo, nutre il desiderio e quindi genera la visione e la passione che stanno alla base delle rivoluzioni. Analizzare queste ultime esclusivamente rispetto alle loro dimensioni strutturali (istituzionali, politiche, socio-economiche, ecc.), non è molto utile in termini di comprensione completa del fenomeno, o quanto meno costituisce una riduzione di complessità. Per questo motivo, forse, la cruda osservazione dei fatti sociali che spesso sembrano solo malattie di una collettività confusa, ma che invece costituiscono la trasposizione di dolori e ferite individuali di una umanità suo malgrado “alienata” e non più a suo agio, può arricchirsi e ampliarsi quando si considera la cornice desiderativa di tali fatti.

Le rivoluzioni, in questo senso, non servono solo alla Storia, alle masse, alle classi sociali, o meglio ne migliorano le condizioni e ne emancipano la struttura solo a patto di aver, precedentemente, costituito una “esperienza di cambiamento individuale”. In termini psicoanalitici, dunque, le rivoluzioni sono innanzitutto un insight dell’individuo, cioè una occasione di trasformazione che, mentre cambia i contenuti emotivi di chi ne fa esperienza, produce verità. L’insight è una esperienza di verità che cura, che produce cura di sé, direbbe Foucault. E questo è lo scarto finale delle esperienze rivoluzionarie: partire da un desiderio che genera una visione del mondo diversa da quella esistente, caricarla di contenuti passionali per metterla in atto e accogliere la trasformazione individuale e collettiva che la rivoluzione genera come esperienza di verità dei soggetti.

Desiderio, visione, passione, verità, dunque.

Ma la cosa più affascinante della faccenda è che le rivoluzioni, come concetto, sono sempre destinate a “superarsi”, sono costitutivamente votate al superamento: ogni rivoluzione è superata da una ulteriore rottura, e poi da un’altra successiva, e da un’altra ancora, e così via. In questo modo l’esperienza di verità che si portano dietro non diventa mai assoluta, sventa il rischio di cristallizzarsi e divenire totalitarismo, tanto politico, quanto culturale. Ecco perché non dovremmo mai aver paura delle rivoluzioni ma, al contrario, auspicarne sempre una, di tanto in tanto. Per non abituarci alla verità che, dopo un po’, diventa dogma.